Il mondo senza fini

Agire! Agire! Agire! 
È questo ciò per cui siamo al mondo.

Dicono che certi libri non ti arrivino nelle mani per caso,sono loro che ti attraggono, sono loro che comunicano con le corde più intime e quando li sfogli e leggi le prime righe capisci il perché.
Ho guardato da lontano "Il mondo senza fini" di Ivan Rizzi e già sentivo che c'era un messaggio per me. Come mai quella foto in copertina? Che relazione c'è tra il contenuto e una foto di Serrano? E così, prima che si presentasse Rizzi, ho abbracciato il mio fotografo preferito. Andres Serrano, un artista dalla profondità assoluta, il Caravaggio  interpretato in chiave digitale. Colui che va oltre il primo strato, colui che come il San Tommaso del Caravaggio, mette il dito e va in profondità.
Ed ecco il nesso. La profondità, lo scendere in apnea, il "mettere il dito", il superare lo strato superficiale. 



L’oggi è privo di stupore, viene consumato per abitudine, senza idealità e grandi aspirazioni. Per gli uomini vivere è un disagio. Sottovivono più che sopravvivere. Sempre protetti dagli alibi e dalle infinite ripetizioni con cui si rende distratta l’esistenza. Vogliono essere assenti a loro stessi, estraniare il pensiero dalla mente. Trascorrere il tempo come in un passatempo.
Siamo in pericolo. Si avverte chiaramente, pagina dopo pagina, il monito dell’autore che solletica e sollecita all’azione il lettore. Agire! Agire! È questo ciò per cui siamo al mondo.

Viceversa ci si limita a guardare, come in Matrix, il film cult dove l’umanità è ridotta a una dolce latenza virtuale, a ritrarsi dalle ritorsioni del reale, ad assistere, ma chi più assite meno vive.
L’orizzonte depressivo che sembra attanagliare l’attualità è una sofferenza intima che oggi si riversa in una più generale apprensione, un sentimento di impotenza e un simmetrico senso di inadeguatezza. Passioni troppo tristi, direbbe Spinoza.
Il coraggio può procedere anche dalla domanda di verità diventando coraggio dell’idea, coraggio intellettuale. Sapere aude! era il motto della fortezza critica che da un lato poteva smentire il potere, dall’altro imporre il diritto dell’accertamento del vero.
In questo modo il coraggio non è più solo l’opposto della viltà, lo è anche di tutte le forme di passività, di inerzia, come quella di credere di non contare nulla, di sentirsi impotenti, magari indulgendo in una falsa idea di tolleranza che spesso è l’alibi di una vigliaccheria civile (e di una resa al fatalismo dell’immodificabilità del mondo). Il coraggio è la capacità di dare inizio a qualcosa di fronte a quello che manca nel mondo, è appunto la “virtù dell’inizio”, l’apertura al compimento vitale dell’individuo. Agire! Agire! È questo ciò per cui siamo al mondo.
Io non sono nulla e dovrei essere tutto, dice un giovane Marx più sfrenato che mai. Oggi però potrebbero dirlo proprio i giovani.
Dalla parte dei giovani c’è la più grande energia fisiopsichica che la natura possa mettere a disposizione del tempo, ma tutto può essere disperso. Affinché si possa sapere di vivere il tempo bisogna riconoscere che serve una grande intransigenza verso il proprio sé. Ma chi glielo dice ai giovani di mettersi a caccia dell’ideale dell’io? Nell’agio del consumo risultano troppo onerose quelle iniziazioni che annichilivano e facevano risorgere simbolicamente, e che scandivano l’ingresso del giovane in una società. Sedotta e sedata, l’energia dissipativa e insieme affermativa più potente della nostra società viene invece gettata via e gelata in una attesa senza fine.
Nessuno sa a priori ciò che è, proprio perché è tempo che avviene. Diventa te stesso, è stato detto, per poter essere in tempo.
Certamente contro i giovani c’è moltissimo: la caduta del saggio demografico, che sul piano sociale, cioè del peso dei numeri, ne riduce giocoforza l’importanza (come sanno bene i partiti); la catastrofe della scuola pubblica, che sul versante occupazionale ha creato innumerevoli anacoluti, individui impreparati che grazie all’alibi dell’egualitarismo si sono visti esentare da ogni impegno emancipativo; l’assenza di lungimiranti politiche di ingresso nel mondo del lavoro mentre questo è attraversato dalla più drammatica metamorfosi della storia.
Chi ha l’orgoglio di se stesso non può però affrontare il mondo senza l’orgoglio di appartenenza, senza una patria o perlomeno un orizzonte comune. Le creazioni dello scultore Eduardo Chillida ci pongono di fronte a un orizzonte infinito, un punto di fuga misterioso insito in tutta la realtà: «Vorrei mettere l’uomo davanti a uno spettacolo così impressionante come è l’orizzonte, irraggiungibile, necessario. […] Se tu avanzi, lui si sposta. Sono arrivato a pensare che forse l’orizzonte è la patria comune di tutti gli uomini…». Quel legame intersoggettivo che ci ha concesso di esistere ha infatti la potenza della forza di gravità. Ci proietta verso un orizzonte più ampio della nostra esistenza, verso qualcosa che sembra rivolgersi all’eterno.
La spiritualità è sopravvissuta alla “morte di Dio”, è questa la convinzione che animò anche Andrè Malraux nella sua profezia rispetto all’Europa: “Il secolo XXI sarà spirituale o non sarà affatto”. Esiste appunto un vincolo segreto che lega la spiritualità all’etica ed è in questo vincolo che l’autore vede una via d’uscita all’impasse contemporanea. L’etica è la “grande dissidenza”, dissente da tutte le nuove forme di alienazione e reificazione dell’uomo proteggendo, anche a sua insaputa, la promessa di felicità.

«Il mondo senza fini. Lo spirito ha abbandonato l’Occidente», il nuovo libro di Ivan Rizzi  docente e presidente dell'Istituto di Alti Studi Strategici e Politici di Milano  appena edito da Rubbettino con la prefazione di Diego Fusaro

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